Specchio della psiche e della
civiltà
GIUSEPPE
PERRELLA
NOTE E NOTIZIE - Anno XVIII – 12 giugno
2021.
Testi
pubblicati sul sito www.brainmindlife.org della Società Nazionale di
Neuroscienze “Brain, Mind & Life - Italia” (BM&L-Italia). Oltre a notizie
o commenti relativi a fatti ed eventi rilevanti per la Società, la sezione
“note e notizie” presenta settimanalmente lavori neuroscientifici selezionati
fra quelli pubblicati o in corso di pubblicazione sulle maggiori riviste e il cui
argomento è oggetto di studio dei soci componenti lo staff dei recensori della Commissione
Scientifica della Società.
[Tipologia del testo: SAGGIO BREVE/DISCUSSIONE]
(Decima Parte)
18. Perché carne e spirito
non sono corpo e anima e come nasce la persona quale astrazione
identitaria che include il corpo. Per introdurre il modo in cui il corpo
era concepito in epoca medievale ho usato l’espressione “in un modo non intuitivamente
comprensibile”, perché oggi riesce difficile immaginare che per pensare al
proprio essere fisico si potesse far riferimento a un paradigma teologico. In
realtà, il Corpus Domini illustrava magistralmente la possibilità di
avere un’anima – che in quel caso è lo Spirito Santo – intimamente fusa con la
materia biologica e, allo stesso tempo, distinguibile e separabile: l’anima non
è un prodotto della fisiologia del corpo, che esiste fin quando è vivo e cessa
di esistere quando cuore e cervello cessano di funzionare, ma un’emanazione
della stessa essenza divina. Questo concetto, che per noi è una nozione
catechistica, costituiva a quel tempo un criterio del senso comune.
Oggi si dice spesso, seguendo le
schematizzazioni dei filosofi contemporanei, che nei secoli cristiani si era affermata
la contrapposizione dicotomica tra corpo e anima. In realtà, si
tratta di una semplificazione superficiale e, a mio avviso, in qualche caso
fuorviante. Infatti, se si studiano i testi antichi e si leggono con attenzione
le migliori traduzioni di cui si dispone, è facile rendersi conto che la vera
contrapposizione è fra carne e spirito. Non è una mera questione
semantica, ma una cruciale distinzione concettuale.
Per carne, infatti, si
intende quell’insieme di corpo e anima[1], fisicità e intelletto in cui si esprime l’istintualità del soggetto; un
insieme che è in grado di sottomettere la ragione e la conoscenza alle proprie
esigenze. Lo spirito, d’altra parte, non è l’immateriale del soggetto
che ha la funzione di animare il corpo, ma la dimensione dell’essere rivolta al
divino, dal quale trae senso, valore e scopo[2].
Per comprendere realmente il
cambiamento umanistico e rinascimentale nel modo di pensare è necessario sforzarsi
di entrare nei modi di concepire la realtà secondo una ragione, ben esercitata
nello sviluppo di senso ma fondata su presupposti di fede, che aveva dominato
per oltre un millennio. In questa ragione, il corpo e lo spirito si sostengono
reciprocamente o, per dirla con i filosofi del Novecento, si legittimano a
vicenda. In questo modo di intendere, non esiste l’uno senza l’altro.
Proprio così: senza lo spirito il corpo non esiste. E, infatti, quando l’anima
che include lo spirito l’abbandona, diventa spoglia mortale. Ma lo spirito, a sua
volta, è vivo nel corpo vivo se è nella grazia e resterà in eterno, altrimenti
non è in grado di evitare che quel corpo animato, che sta vivendo, sia, in
realtà, già morto, perché morto è il suo spirito e non ha dunque futuro. È a
questo che si riferisce Gesù Cristo quando dice: “Lascia che i morti
seppelliscano i loro morti”[3].
Tanto premesso, è più facile
comprendere perché il rapporto tra corpo e spirito è cruciale per la
definizione dello statuto della bellezza. La disputa, allora, si riduce
tutta a stabilirne la natura, o almeno a prendere posizione in una contesa
dialettica, tra forma e sostanza.
L’avvenenza del “corpo del peccato”
può essere bellezza solo per chi concepisca questa dimensione quale forma,
e costui non sarà disposto a riconoscerla nel corpo deforme di una persona il
cui spirito vive nella grazia, perché non ritiene che la bellezza sia un valore
di sostanza, ma un requisito di evidenza[4].
Cecco Angiolieri ne faceva una
questione esclusiva di forma e diceva di non poter intendere bella una donna
brutta solo per fede.
Ma cos’altro è la fede se non la speranza
che supera le ragioni dell’evidenza? Eppure, non identificandola col
presupposto del credo, ma concependola quale stato dell’essere, la si riporta
al corpo: la fede è quell’agire per fede che materialmente rende
percettibile la realtà dei suoi benefici. Da ciò, la formula a me cara che la
definisce in termini di atti concreti che materializzano la speranza. La
fede trasforma il brutto in bello: risana l’anima, e Gesù lo rende evidente
risanando anche il corpo, così che tutti capiscano che la sostanza
supera la forma.
Un aspetto fondamentale nel rapporto
tra la teologia cristiana e il modo di intendere il corpo in relazione al
soggetto è che la soluzione del problema di conciliare il monoteismo col
concetto di divinità trinitaria fornisce anche una possibilità
logico-linguistica nuova per concepire corporeità e soggettività.
La Trinità non è un’invenzione della
Chiesa del Trecento, come talvolta si legge, e il suo successo presso teologi e
fedeli non è dovuto solo alla plausibilità logica della tesi.
Nel Vangelo: “Andate e ammaestrate
dunque tutte le nazioni, battezzandole nel nome del Padre e del Figlio e dello
Spirito Santo”[5] è la frase chiave dalla quale ha origine una consapevolezza trasmessa dai
testimoni e poi per generazioni fino all’epoca in cui la questione fu posta
come problema filosofico. Joseph Dorè nota che εις τὸ
ὄνομα (nel nome) e il ricorrere due volte della
congiunzione και (e) nel testo originale greco indica già un
credo trinitario.
Teofilo di Antiochia, apologeta
cristiano del II secolo, usa il termine greco trias; poco tempo dopo
Tertulliano, proprio nel De pudicitia in cui parla del corpo, introduce
per la prima volta nella storia la parola Trinità.
Così arriviamo all’epoca in cui gli
interrogativi dei non credenti tengono banco all’interno della Chiesa, che
viene costretta a dar conto della propria dottrina a coloro che la analizzano
come una filosofia, non leggono le Scritture in chiave anagogica e pretendono
coerenza logica secondo un metro col quale si giudica ordinariamente il
pensiero umano.
Il Concilio di Nicea del 325
stabilisce che Gesù Cristo è Figlio Unigenito di Dio, generato non creato
della stessa sostanza del Padre. Nel Concilio di Costantinopoli del 381 si
trovò il modo di rendere a parole un concetto già chiaro nella sua essenza
nella mente dei cristiani, ossia l’Unità e Trinità di Dio, e la chiave
fu il vocabolo “persona”: la sostanza unica di Dio si manifesta in tre
Persone uguali e distinte, che sono il Padre, il Figlio e lo Spirito
Santo[6].
Da questa cultura origina una nuova
cognizione verbale legata al termine “persona”[7], che può indicare tanto l’individuo con il proprio corpo come la Seconda
Persona, tanto il soggetto astratto come la Prima e la Terza, in un’accezione
che darà poi luogo al vocabolo personalità.
La riflessione teologica su Gesù
Cristo, definendo il rapporto paradigmatico della divinità con l’essere fisico
materialmente esperito dai suoi contemporanei, chiarisce anche ciò che riguarda
tutti i mortali. L’incarnazione consiste nel fatto che lo Spirito di Dio
sia entrato in un corpo mortale; dunque, l’anima di Gesù è Dio stesso e la sua identità
precipua è data proprio dal tempio biologico che ospita l’immateriale
divino. Quel “tempio” che Gesù promette di ricostruire in tre giorni attraverso
la resurrezione dopo la distruzione della morte[8].
Per il cristiano il corpo è l’uomo[9], perché l’anima, con lo spirito che la caratterizza, fin quando l’uomo è in
vita è tutt’uno col corpo, che la contiene e la esprime. È importante, a questo
punto, soffermarsi sulla peculiarità di questa concezione perché anche Socrate,
come leggiamo in Platone, considera l’intero dell’uomo dato dall’organismo
vivente con la sua anima[10], ma la concezione cristiana collega questa proprietà al fine dell’uomo e
al senso della Creazione. Infatti, i destini delle due parti costituenti l’intero
sono intimamente connessi: è ciò che compie il corpo e si compie nel
corpo che deciderà della salvezza o perdizione dell’anima al tempo della
resurrezione della carne; dopo il Giudizio, corpo e anima insieme avranno il
destino definitivo nell’unione con Dio o nella separazione eterna del supplizio
infernale.
19. Dal corpo dello spirito al
corpo della pittura secondo due visioni opposte: lo studio anatomico di
Leonardo contro la ricerca cromatica e l’approdo erotico dei Veneti. Leonardo
non aveva praticato in modo sistematico la dissezione di un corpo umano prima
dell’inverno tra il 1507 e il 1508, quando ottiene questa possibilità presso l’Ospedale
Santa Maria Nova dove, grazie ai rapporti di amicizia con i medici, poteva
recarsi a ritrarre i pazienti, secondo una pratica che rimarrà nei secoli successivi
e sarà apprezzata come sussidio allo studio dell’obiettività ispettiva degli
ammalati[11].
In quei giorni si verifica un evento
di cruciale importanza per l’anatomia artistica e lo studio della miologia e dell’osteologia,
la cui indelebile traccia è visibile in alcune fra le più straordinarie tavole
conservate presso la Royal Library di Windsor. Il maestro di Vinci conosce un ultracentenario
– ricoverato perché avverte astenia anche se non è ammalato – interessante da
studiare per l’età e la serenità che trasmette. In un’annotazione di Leonardo
su questa esperienza leggiamo: “Questo vecchio, poche ore prima della sua
morte, mi disse di passare i cento anni, e che non sentiva alcun mancamento
nella persona altro che la debolezza e così standosi a sedere su un letto dell’Ospedale
Santa Maria Nova di Firenze senz’altro movimento o segno di alcuno accidente passò
di questa vita; ed io ne feci l’anatomia per vedere la causa di sì dolce morte
[…] la quale anatomia descrissi assai diligentemente e con gran facilità per
essere il vecchio privo di grasso e di umore, il che assai impedisce la
cognizione delle parti”[12].
Leonardo considera la pittura una
scienza e ne concepisce un ruolo, compiuto attraverso la fedele riproduzione
grafica del corpo, simile a quello che hanno oggi le discipline biologiche di
base in rapporto alla medicina. È convinto che la conoscenza morfologica,
acquisita fissando su un foglio l’esperienza visiva dettagliata o l’accurata
dissezione delle parti con l’evidenziazione nel disegno di aspetti non noti,
possa contribuire alla scoperta di ragioni e cause di fisiologia e patologia[13].
Leonardo ritiene un dovere assoluto
e prioritario mettere a frutto i propri talenti e, quale persona dotata in modo
speciale, sente la responsabilità di ottenere nuova conoscenza a
beneficio di tutti: il suo scopo non è conseguire titoli o benemerenze nel
campo della medicina, ma è aprire la strada alla ricerca morfologica attraverso
il disegno e, se è vero che da quel lavoro che conduce “con ostinato rigore”
ottiene un perfezionamento delle proprie abilità, è pur vero che ogni nuova
acquisizione e ogni principio che deduce dalla sua pratica sono da lui
concepiti quali potenziali oggetti di trasmissione, come si evince dal Trattato
della Pittura.
In quest’opera, che si apre con un
paragrafo dall’eloquente titolo “Se la pittura è scienza o no”, la sua visione
improntata al valore del dono emerge con evidenza: “Quella scienza è più utile
della quale il frutto è più comunicabile”[14], e giustifica la sua predilezione per la pittura sulla base dell’universalità
delle immagini che, come gli elementi della realtà naturale, richiedono solo la
vista per giungere alla mente e al cuore delle persone: “Adunque questa non ha
bisogno d’interpreti di diverse lingue, come hanno le lettere”[15].
La scienza, intesa quale ragione che
conosce la natura, associata al valore morale della responsabilità dell’altro, è
perfettamente coerente con l’ideale tomista della sapienza che si
manifesta come ragione condotta dall’amore. Ma non tutti gli artisti sono su
questa lunghezza d’onda e i due grandi pittori del momento, la cui fama dalla
laguna veneta si sta diffondendo in tutta Europa, dopo aver raggiunto Milano e
Firenze, sembrano portatori di un nuovo stile di vita e di pensiero, più che
semplicemente di pittura: Giorgione da Castelfranco Veneto, un giovane d’altezza
statuaria che gli amici chiamano in veneto “Zorzi”, e il suo allievo, ancor più
giovane di lui, Tiziano Vecellio da Pieve di Cadore.
Proviamo ad entrare nel tempo dell’anno
1508, quando in Firenze Guicciardini prende a scrivere le Storie fiorentine e
Macchiavelli, tornato dall’Alemagna, ossia la Germania, è intento a redigere il
suo Rapporto delle cose della Magna[16] e, pur manifestando in ogni modo la sua ammirazione per Leonardo, non riesce
ad ottenere un ritratto dal maestro, che sembra non ricambiare la stima
incondizionata e non aver tempo per altro, preso come è dagli studi presso l’Ospedale
Santa Maria Nova, dove sovente rimane anche di notte.
Luca Signorelli, grande virtuoso del
nudo e autore delle figurazioni ispirate alla Divina Commedia nel Duomo di
Orvieto[17], approfittando dell’ammirazione che Michelangelo aveva per lui, gli chiede
in prestito del danaro che non gli renderà mai[18]. Signorelli, dopo aver sposato Gallizia Carnesecchi, fa una vita al di
sopra delle proprie possibilità per frequentare i signori dell’epoca, come
Pandolfo Petrucci, che gli commissiona la decorazione del suo palazzo senese
con l’aiuto di Pinturicchio, del quale terrà a battesimo il figlio l’anno dopo.
Il 1508 è anche l’anno in cui Michelangelo
firma l’impegno per affrescare la Cappella Sistina e comincia a studiare la tecnica
per dipingere sull’intonaco fresco. I suoi buoni uffici consentiranno a
Signorelli di essere assunto dal Papa come aiuto di Pietro Perugino e rimanere alla
Sistina anche dopo questo incarico. Il nudo di donna, quasi bandito dall’arte medievale,
non aveva avuto grandi modelli stilistici se non le sculture greche di epoca
pagana, e dunque le figure di Signorelli costituiscono modelli di interpretazione
cristiana del nudo in pittura[19].
Torniamo a Venezia. La Repubblica Serenissima
è all’apice delle sue fortune artistiche, politiche, economiche e commerciali,
e vive la massima espansione, con un dominio navale sui mari d’Oriente oltre che
sull’Adriatico, e sulla terra, con un’influenza che ha superato i territori
veneti e friulani, interessando buona parte di quelli lombardi. Il 1508 è l’anno
della Lega di Cambrai, la grande coalizione anti-veneziana con a capo
Massimiliano I d’Austria, che riunisce i principali eserciti europei, fra i
quali primeggia l’esercito francese[20]. Il Papa patrocina la Lega perché vede nei Veneziani, fortemente
influenzati dall’idolatria del danaro e del benessere economico dei grandi
mercanti tedeschi[21], una cultura anticristiana che può corrompere lo stile di vita che a Roma
si sta faticosamente cercando di edificare attraverso la pedagogia dell’arte
sacra, con il contributo dei massimi artisti dell’epoca.
La pittura a Venezia vive il suo annus
mirabilis perché, morto l’anno prima il grande caposcuola Gentile Bellini,
alla bottega del fratello Giovanni, celebre per aver dipinto oltre cento
madonne, sono emersi i due nuovi astri del firmamento della pittura italiana di
cui dicevo prima.
Nel 1508 Giorgione e Tiziano affrescano
uno splendido palazzo monumentale affacciato sul Canal Grande e detto il Fondaco
dei Tedeschi[22] con una pittura di un’intensità cromatica mai vista prima: Tiziano, l’allievo,
aveva insegnato la procedura dell’affresco[23] al suo maestro di “olio su tela” Giorgione, il quale dipinge la Nuda,
con un realismo dell’incarnato che fece grande scalpore.
Giorgio Vasari, studioso e interprete
della tecnica pittorica dei Fiorentini, non conobbe mai le procedure adottate
dai Veneti, ma riferisce nella biografia dell’ossuto e altissimo artista di
Castelfranco: “Aveva veduto Giorgione alcune cose di mano di Lionardo molto fumeggiate
e cacciate, come si è detto, terribilmente di scuro. E questa maniera gli
piacque tanto, che mentre visse sempre andò dietro a quella, e nel colorito a
olio la imitò grandemente”[24].
Vasari lodò i dipinti del Fondaco
dei Tedeschi per le proporzioni armoniche e le tinte raffinate ma vivacissime,
che facevano sembrare le figure “tratte al segno delle cose vive, e non a
imitazione nessuna della maniera”. Ma in modo particolare ci interessa la Nuda
– oggi custodita come affresco staccato presso le Gallerie dell’Accademia di Venezia
e, purtroppo, notevolmente deteriorata nella parte inferiore – perché propone nella
sua integralità naturale il corpo di una donna giovane resa ancora più attraente
nel fisico dalla maestria tonale delle tinte che, osserva Alessandra Fregolent,
conferisce “alla figura quel tepore delle carni come se fossero vive, caratteristica
dello stile di Giorgione”[25].
Leonardo si era cimentato con il
nudo di donna in una Leda e il cigno: raro caso per lui di un soggetto
mitologico, verosimilmente studiato per un committente nel secondo periodo
fiorentino e realizzato come olio su tavola, poi andato perduto[26]. La struttura dell’opera però può essere ricostruita dai numerosi studi
che ci sono pervenuti; a proposito dei quali ricordo che Raffaello Sanzio
utilizzò il disegno preparatorio di Leonardo per farne una copia, ora custodita
a Windsor. Ma, soprattutto, possiamo immaginare l’aspetto del primo dipinto da uno
successivo che ci è giunto, la Leda Spiridon da lui impostata e portata a
termine dagli allievi[27]. L’eleganza, la grazia, le tinte avoriate della pelle che smorzano ogni aspetto
naturale delle parti intime, la posa frontale in piedi con lieve rotazione del
busto e inclinazione del capo, da statua decorativa, e gli arti e il seno studiati
da prototipi e non dal vero, rendono perfettamente l’intento dell’artista di presentare
l’armonica bellezza di un corpo idealizzato.
Molti anni dopo, anche Michelangelo
dipinse una Leda, che possiamo vedere in una copia dell’epoca, straordinariamente
somigliante alla statua allegorica detta La Notte della tomba di
Giuliano dei Medici nelle Cappelle Medicee: entrambe le figure sono tratte da
un bassorilievo di un sarcofago romano[28], che riproduce la sagoma di una donna semisdraiata in una posizione quasi autoprotettiva,
con l’arto inferiore sinistro addotto, la cui coscia di proporzione enorme come
il tronco rispetto al viso, è flessa a coprire la parte inferiore del corpo e
parzialmente il cigno. La copia della National Gallery di Londra mostra una figura
più vicina ai monumentali personaggi della Sistina che a una donna reale. Come quella
di Leonardo, anche la Leda di Michelangelo è una figura ideale, che
rappresenta più uno stile che un contenuto simbolico attualizzato.
La concezione del dipinto di Giorgione
non è paragonabile alla Leda: non si tratta di trovare sintesi estetiche
e compromessi morali tra classicismo e cristianesimo, la Nuda vuole essere,
molto più di quanto sarà la donna nuda dell’Amor Sacro e Amor Profano di
Tiziano, un’immagine erotica come quelle dell’antichità pagana. Perché? Vuole forse
provocare al peccato o vuole proporre l’idea che la sublimazione dell’arte crei
nella sua dimensione virtuale caratterizzata dall’esaltazione simbolica della
forma una sorta di porto franco, libero dalla legge morale che si applica alla
realtà?[29]
La risposta si può trovare seguendo
due tracce diverse, che non necessariamente si escludono a vicenda: le ragioni
della pittura e le ragioni di una nuova concezione del corpo.
Cominciamo dalle prime, che richiederanno
l’esposizione in premessa di alcune curiosità tecniche.
I grandi autori del Cinquecento
veneziano, a differenza dei Fiorentini che privilegiavano l’esercizio di perfezionamento
del disegno, concentravano i loro sforzi maggiori nella ricerca sulle materie
coloranti e sulle tecniche di resa cromatica dei dipinti. Avevano, ad esempio,
scelto due colori per la loro straordinaria estensione tonale, ossia la terra
di Siena bruciata e il blu di cobalto, e ne avevano sperimentato le tinte
combinandoli in tutte le proporzioni possibili e poi in mestiche con l’aggiunta
di bianco, ugualmente in tutte le proporzioni. Lo scopo era quello di “intonare”
il dipinto, ossia conferire quella coerenza complessiva fra toni e tinte donata
nella realtà dalla luce[30].
La luce irreale e attraente,
drammatica e misteriosa de La Tempesta di Giorgione è dovuta al fatto
che tutte le tinte, dall’incarnato della donna alla parte oscura del cielo,
sono ottenute da due soli colori: Siena e cobalto[31].
I Veneti ritenevano di aver scoperto
il mitico “segreto di Apelle”[32] che, secondo racconti leggendari, consentiva a quel pittore dell’antichità
di dipingere i suoi soggetti con un realismo tale da ingannare l’occhio dell’uomo
e degli animali[33]. Lo studio sull’arte del mondo classico aveva portato gli artisti lagunari
a identificare la vernice nera di Apelle con l’asfalto che, a
dispetto del suo colore bruno scurissimo, se diluito in un opportuno medium, dà
una vernice trasparente con la quale si possono velare gli oggetti dipinti
conferendo loro una luce calda e dorata, impossibile da ottenere in altro modo.
In realtà, anche Leonardo conosceva l’asfalto o bitume di Giudea, e ne
aveva realizzato varie preparazioni con consigli per l’uso tramandate per secoli
ai pittori fino ai nostri giorni, attraverso la Memoria di Cennino
Cennini e il dire dell’Armenini (1530).
Ma i veneti erano andati oltre nel
loro studio, creando un metodo in grado di accrescere in modo straordinario la
saturazione del colore steso sulla tela: il fondo nero. Una preparazione, anche
questa, secondo alcuni basata sull’asfalto[34], che consentiva al pittore, fin dalle prime pennellate di abbozzo, di leggere
la luminosità cromatica delle tinte messe in opera[35]. Il nero del fondo tendeva però ad abbassare il tono chiaroscurale all’asciugarsi
del colore, scurendo tutto il dipinto; dunque, per evitare questo rischio, i
Veneti impostavano le tinte chiare con una gran massa di materia: Tiziano nell’Assunta,
il suo capolavoro, per ottenere quel luminosissimo cielo, dispose sul fondo nero
uno strato di bianco contenente giallorino di circa due centimetri di spessore[36].
Il consapevole e deliberato eccesso
di materia nel chiaro era poi corretto e regolato attraverso la sovrapposizione
di sottili strati di colore trasparente: le celebri velature che, intese
ad addolcire i contrasti chiaroscurali delle tinte, ammorbidivano di molto
anche i contorni, creando quell’effetto che gli storici dell’arte descrivono
come “fusione delle figure con l’ambiente”. In genere, al termine dell’opera, quando
il colore era asciutto e ben fermo, tutto il dipinto era ricoperto da uno strato
sottile di vernice trasparente d’asfalto che gli conferiva quell’aspetto detto “la
magia dei Veneti” che l’occhio bene apprezza dal vivo, ma non viene reso dalla
riproduzione fotografica[37].
Questa premessa sulle peculiarità
tecniche dei Veneti ci aiuta a comprendere una prima ragione su base pittorica
per la realizzazione della Nuda nel Fondaco dei Tedeschi: Giorgione è
consapevole di aver raggiunto un livello di resa cromatica delle tinte
incarnate e della luce sul corpo che non ha uguali negli altri grandi maestri
di cui ha visto le opere. È ansioso di dimostrare questa sua abilità. Un’altra
importante ragione pittorica è costituita dallo studio del corpo della donna,
che Giorgione ha potuto effettuare dal vero, a differenza di tanti altri
pittori del suo tempo.
Le ragioni della pittura mettono
a nudo ciò che l’opera è, in termini di lavoro, per chi deve
realizzarla, al di là dei contenuti simbolici, allegorici, suggestivi e dei messaggi
che intende trasmettere. Per i pittori, quando ragionano solo nei termini della
propria arte, la crocefissione è un saggio di nudo maschile, le madonne sono
una prova di ritratto femminile idealizzato, il san Girolamo dell’abilità di rappresentare
l’anziano, il Gesù Bambino, al quale in genere si perviene dopo una lunga
gavetta di puttini e cherubini, è un esame delle abilità nel ritrarre il viso e
modellare il corpo dell’età infantile, e così via.
La realizzazione del nudo di donna
pone dunque in questione la transizione culturale tra Medioevo e Rinascimento,
che non è ancora ultimata e che, sicuramente, sta avvenendo con tempi e
caratteristiche molto diverse tra Firenze e Venezia.
Nel Medioevo i corpi erano sempre
ricoperti da indumenti e la conoscenza della forma nello spazio del corpo
nudo e dei suoi particolari anatomici nelle varie e possibili angolazioni
visuali e prospettiche si era andata perdendo, così come si era ecclissato il ruolo
delle persone quali modelli di pittura e, particolarmente, della modella di
nudo. Nel cervello della maggior parte delle persone, le immagini potenziali
impiegate per il processo di inferenza facevano riferimento al corpo parzialmente
vestito e, dunque, il disegno della figura umana non tratto dal vero ma tratto
dalla propria mente, ossia immaginato dai pittori, tendeva a rappresentare le parti
del corpo non conosciute morfologicamente secondo una schematizzazione ideale.
Alcuni degli errori anatomici dovuti
a mancanza di apprendimento mediante copia dal vero, sono interpretati dagli storici
dell’arte quali tratti dello stile del particolare artista, ma tali limiti del
disegno, che insieme con altri caratterizzano la pittura medievale, erano considerati
dai maestri del Rinascimento degli errori imperdonabili.
Il corpo maschile era alla base
dello studio del disegno di figura, tipicamente usato nella grafica di progettazione
dei personaggi ambientati nelle scene: i profili dei muscoli costituiscono dei
moduli dimensionali di riferimento che guidano i tratti dello schizzo alla costruzione
proporzionata delle parti e alla realizzazione armonica dell’insieme. Il proprio
corpo, riflesso negli oscuri specchi metallici che ne accentuavano il chiaroscuro
enfatizzandone i rilievi, non di rado era il primo modello di nudo per molti artisti,
e accadeva anche che i cartoni preparatori dei pittori che avevano potuto
copiare figure dal vero[38] venissero ceduti in prestito per la copia dietro pagamento, venduti o
regalati, come nel caso documentato di Michelangelo ad Antonio Mini[39].
Il compromesso necessario ad
aggirare il problema dello studio dal vero del corpo femminile adottato da Leonardo
e Michelangelo per affrontare il tema classico di Leda e il cigno, non
consente di sciogliere il nodo medievale che legava in una gordiana indissolubilità
i problemi di tecnica pittorica alla proibizione per le donne di esporsi nude
alla vista di una persona diversa dal proprio marito, ma è un escamotage a
beneficio dell’arte, che costituisce un vero contrassegno iconografico dell’epoca
ed è indice di un cambiamento culturale.
La nuova concezione che gli artisti
fiorentini propongono alle autorità ecclesiastiche può definirsi “innocenza del
corpo”: il peccato non è nel corpo nudo e tanto meno nella sua imitazione
artistica, il peccato è nella concupiscenza, nel desiderio, e non consiste nel
fatto che possa comparire alla mente un generico desiderio, ma che l’uomo non
allontani prontamente da sé l’idea di desiderare la donna d’altri. Ben oltre,
come vedremo, andranno i Veneti.
Ma, prima di tornare tra le gondole,
vediamo come Leonardo arriva al fatidico anno in cui decide di immergersi negli
studi di anatomia per conoscere realmente il corpo, mentre in laguna rimangono
al colore della superficie della pelle.
20. Leonardo da Vinci e Giorgione
da Castelfranco: due tratti di vite parallele a confronto. Possiamo
considerare il 1508 come l’anno in cui Leonardo ha raggiunto un nuovo
equilibrio psicologico fra la sua identità interiore e quella pubblica, riflessa
nella reputazione che gli veniva attribuita. Se non abbiamo elementi per
dedurre una vera e propria crisi causata dal cambiamento dell’immagine che avevano
di lui i potenti in Firenze e, di riflesso, tutti coloro che in città e fuori
ne subivano l’influenza, possiamo con certezza riconoscere una sofferenza per
queste ragioni nel periodo in cui varca la soglia dei cinquant’anni.
La conoscenza psicologica di
impronta neuroscientifica ci insegna che le relazioni sociali che pongono in
gioco aspetti importanti dell’identità di una persona assumono valore
psicoadattativo e, pertanto, il venir meno dei loro effetti riduce la stabilità
dell’equilibrio di adattamento, causando varie forme di sofferenza psichica,
generalmente caratterizzate da ansia. L’elevato livello di consapevolezza di sé,
che si suppone nel Genio vinciano, deve averlo indotto a cercare di ritrovare,
attraverso scelte di vita, l’equilibrio interiore. Facciamo un passo indietro
fino al 1500.
A quarantotto anni si reca a Venezia
dove può apprezzare il lavoro di Gentile Bellini e della sua scuola, ma può anche
trovare conferma della superiorità del suo disegno e della buona fama di cui
gode nella città lagunare; in quello stesso anno decide di lasciare Milano e, in
compagnia di Luca Pacioli, torna a Firenze dove dimora presso il convento dei Servi
di Maria Santissima Annunziata. Dopo essere stato al seguito di Cesare Borgia come
architetto e ingegnere generale, rientra a Firenze, sempre all’Annunziata, e
comincia a dipingere la Gioconda[40], quando la Signoria fiorentina lo incarica di rappresentare la Battaglia
di Anghiari sulla parete di fronte a quella sulla quale Michelangelo Buonarroti
dipingerà la battaglia di Cascina.
Siamo nel 1503 e Leonardo sa e sente
che quel confronto è una competizione per il primato artistico nella città, che
appassiona non solo i Fiorentini ma tutti i protagonisti della cultura
rinascimentale in Italia e oltre i confini del nostro Paese.
Ma nel 1504, mentre lavora alla
Battaglia di Anghiari e nei ritagli di tempo studia la struttura di Leda e
il cigno, è chiamato a far parte della commissione che dovrà decidere la
collocazione del David che Michelangelo ha quasi concluso e tutti hanno già
visto: è in questa circostanza che si rende conto di come sia cambiata la
considerazione generale nei suoi confronti.
L’opinione di proteggere il David
tenendolo al ripario dalle intemperie, espressa dal genio vinciano, è considerata
tanto manifestazione di un’eccessiva prudenza originata da una mentalità
claustrale quanto di un’invidia che vuole nascondere alla vista l’opera del
rivale. Una tale meschinità non gli appartiene, e lui sa che Michelangelo gli è
superiore come scultore e architetto, ma gli è inferiore come pittore e
ingegnere: lo ferisce non essere più riconosciuto dai maggiorenti della città per
la nobiltà del suo animo e per il febbrile uso del suo ingegno, ossia nella sua
vera identità.
Per tutti, lui è il passato e
Michelangelo il presente; non si pensa al confronto fra due campioni
assoluti di ingegno e abilità, come lui credeva, ma solo al paragone fra quanto
si è compiuto e ciò che sta nascendo e avrà futuro. Non si vuole proporre al
pubblico, col confronto tra le due battaglie, il giudizio e la scelta del
preferito tra due geni, ma solo evidenziare la chiara e luminosa potenza del
nuovo, rispetto al cupo sfumato nel certosino dettaglio del vecchio. Una finta
gara, persa in partenza, perché il suo ruolo doveva essere solo quello strumentale
di dar risalto alla novità dell’opera dell’idolo attuale.
Leonardo non ci sta: lui è il
presente fino a quando sarà vivo. E forse, anche dopo. Come se fosse appena
uscito da un lungo apprendistato, si sente forte, pronto e determinato a mettere
a frutto le proprie risorse e le proprie idee per creazioni d’arte e d’ingegno
senza uguali.
In quell’anno Raffaello, dopo aver
dipinto il Matrimonio della Vergine, si trasferisce a Firenze, dove conosce
il giovanissimo e già promettente Pontormo, proprio presso il convento dell’Annunziata
che era dimora di Leonardo: non si hanno documenti diretti che provano l’incontro
tra i due grandi pittori ma, come si vedrà più avanti, recenti evidenze consentono
di dedurlo con ragionevole certezza. Raffaello era sicuramente in grado di
restituire al maestro l’immagine di sé che gli era stata riflessa dagli altri
fin dal tempo di Lorenzo il Magnifico, ma ormai pochi nella sua città sembravano
riconoscerlo nella sua identità morale e professionale.
Per questo, nel 1506, decide di
ritrovare serenità nell’equilibrio identitario, andando dove è stato sempre
apprezzato, ossia a Milano. Promette di ritornare a Firenze entro tre mesi, ma
viene trattenuto più a lungo.
In questo periodo, Leonardo
consolida i valori del suo programma esistenziale riaffermandone le priorità, a
partire dal mettere a frutto i talenti alla luce della responsabilità verso il
prossimo, e reagisce così a Michelangelo: l’arte non progredisce portando l’incisività
della scultura nella pittura, ma portando più cervello, più conoscenza e più
realtà nella riproduzione delle persone, delle cose e dei paesaggi.
E così giungiamo alla sua concezione
della pittura come scienza e allo studio anatomico del 1508. Dal Codice Arundel
sappiamo che in quell’anno aveva progettato un’apparecchiatura subacquea da palombaro,
realizzando il dettagliato disegno della maschera, del galleggiante e dei tubi
per la respirazione sott’acqua[41].
Torniamo a Venezia e avviciniamoci
alla pittura del giovane maestro di Castelfranco Veneto prendendo le mosse da
un’opera che ha consacrato Giorgione nel ruolo di innovatore del ritratto.
I due amici o Doppio ritratto, con il volto del giovane in primo piano che
soffre pene d’amore e l’amico che si affaccia alle sue spalle con l’espressione
di serena compenetrazione di chi è scevro da ambasce amorose, è considerato il
prototipo dei ritratti psicologici delle epoche successive ma, soprattutto, riflette
con notevole verismo l’ambiente in cui è immerso l’autore. La realtà della gioventù
benestante lagunare che vive un edonismo neopagano fino allora sconosciuto[42] e, nei suoi giochi d’amore e di piacere, non sembra essere afflitta da un
rischio maggiore di quello di un amore non ricambiato.
È in questo clima, in cui non
mancano donne che si improvvisino modelle, che Giorgione concepisce la Nuda,
dando origine a una tradizione proseguita da Tintoretto, ad esempio col dipinto
della giovane che con la mano destra scopre un seno mentre l’altro è già
esposto.
L’aggregazione cinquecentesca tra le
calle lagunari non è come quella delle allegre brigate dei giovani ricchi
medievali, che si abbandonavano a lussi, eccessi, ubriachezze, intemperanze e
atti illeciti, quale segreto gioco di follia tra giovani, tenuto nascosto agli
adulti e per molti solo occasionale o eccezionale. È accaduto qualcosa di
nuovo: sotto l’influenza delle famiglie di ricchi mercanti nordeuropei stabilitisi
a Venezia, la ricerca del piacere e del divertimento è diventato uno stile di
vita imperante, dal quale sono esclusi solo i più poveri, e che, sebbene mal si
concili con il regime necessario all’esercizio dell’arte della pittura, richiede
come attrazione la presenza delle celebrità del momento: Giorgione e Tiziano [43].
Molti aspetti del sodalizio fra
questi due grandi artisti rimangono oscuri, dall’iniziale decisione di non
firmare le loro opere condividendone la paternità, alle divergenze insanabili
per motivi solo ipotizzabili. Forse alla fine dell’amicizia può aver
contribuito il quasi inevitabile esito individualistico della tensione edonistica,
forse l’inebriante cambiamento di vita prodotto dalla fama raggiunta in breve
tempo può aver indotto uno dei due o entrambi a ritenere di poter fare a meno
dell’altro, o forse, come dedotto da molti, gli enormi interessi in gioco nella
gestione del Fondaco dei Tedeschi può averli resi nemici per avidità[44].
Una differenza profonda con la realtà
di Firenze, che fino a qualche anno prima aveva vissuto per le strade la predicazione
savonaroliana della pena eterna per i peccati di impudicizia, è la diffusione
dello stile sociale di rapporti basati sulla seduzione: dal gioco sottile e
raffinato dei più colti al corteggiamento sfacciato dei villani, dalla ricerca
di avventure galanti per rompere la monotonia di giorni grigi, al cerimonioso,
complimentoso e ammiccante approccio in comuni circostanze di incontro pubblico
fra sconosciuti.
Si spiega così il richiamo erotico
della Nuda: la sensibilità del pittore e dell’ambiente sociale che
immediatamente lo circondava appare più vicina al modo di sentire pagano che a
quello cristiano.
Il 27 aprile del 1509 Papa Giulio II
scomunica Venezia. A questa grave decisione si giunge probabilmente anche per il
concorso di altri fattori all’origine della Lega di Cambrai.
Giorgione, buon suonatore di liuto e
cantante dalla voce intensa e molto apprezzata, era richiesto dalle fanciulle
per animare le sere di primavera ed estate della loro vita. Accadde, racconta
Giorgio Vasari, che durante un intrattenimento musicale con molti amici “s’innamorò
d’una madonna e molto goderono l’uno e l’altro de’ loro amori. Avvenne che …
ella infettò di peste; non ne sapendo però altro e praticandovi Giorgione al
solito, se gli appiccò la peste di maniera, che in breve tempo nell’età sua di
trentaquattro anni se ne passò all’altra vita”[45].
La peste a Venezia del 1510 stroncò
Giorgione, ponendo fine al genio e alla sregolatezza di un maestro che aveva
vissuto di sogni e passioni senza forse mai imparare ad amare[46]. Non furono pochi in giro per l’Italia quelli che vollero vedere nella morte
per peste una punizione del Cielo, ma fra questi non vi fu certo Leonardo. Nel
2005 è stato scoperto[47] lo studio leonardiano presso il Convento dell’Annunziata ed è stata accertata
la presenza in quello studio di un giovane pittore noto con lo pseudonimo di
Morto da Feltre e identificato in Lorenzo (o Pietro) Luzzo da Feltre, che era
stato allievo di Giorgione a Venezia e dopo si era recato a Firenze dal maestro
di Vinci. Tale scoperta supporta l’ipotesi che Leonardo abbia conosciuto
Giorgione nel suo viaggio a Venezia[48].
Alla morte dell’autore della Nuda,
per proseguire i suoi studi di Anatomia, l’autore della Gioconda si
trasferisce di nuovo a Milano, fino al 1511, nella prospettiva di porsi al
seguito di Marcantonio della Torre, un medico giovane ma virtuoso anatomista,
orgoglio dello Studio di Pavia.
Nel 1512 Michelangelo completa la Sistina
e Leonardo la visita e, notando nelle figure il mancato rispetto del rapporto inverso
di contrazione fra muscoli agonisti e antagonisti, esprime la sua celebre
critica, severa e lapidaria: “Li ha fatti come sacchi di noci”.
Proseguendo gli studi di anatomia e
trovandosi a Roma, si reca all’Ospedale di Santo Spirito per partecipare ad
alcune dissezioni. Tra il 1514 e il 1515 a Roma, non solo la fama di Leonardo
non era quella della Toscana e della Lombardia, ma vi era anche una certa resistenza
da parte dei medici ad ammettere degli artisti in sala settoria, non
comprendendone il ruolo. La richiesta di Leonardo di poter disporre di parti di
cadavere o organi sezionati per studiarli mediante il disegno fu presa a
pretesto per allontanarlo con l’accusa di negromanzia, non per caso fondata su
un sospetto avanzato da un assistente tedesco[49].
Leonardo, come dimostrano i disegni,
conosce il prospettometro studiato da Dürer, e lo impiega per applicare
correttamente la prospettiva ai corpi, come del resto fa anche Michelangelo, ma
anche in funzione del suo piano di realizzazione di uno strumento didattico della
morfologia fisica dell’uomo paragonabile alla cartografia per lo studio
geografico delle terre e dei mari. Lo studio del nostro corpo, massima opera
divina nel creato, non deve consistere in una passiva riproduzione delle
fattezze, ma in un continuo esercizio di comprensione della forma in
base alle ragioni che ci rivela.
Ad esempio, Leonardo comprende che, se
sono le ossa del cranio e della faccia a fissare i contorni di un viso, sono i muscoli
a modulare i caratteri del rilevo e gli aspetti fondamentali della fisionomia;
e proprio dal tono di questi muscoli, oltre che dalla loro perfetta o imperfetta
adesione ai tegumenti soprastanti, dipende la differenza nel volto tra una persona
giovane e una in età matura. Solo nella vecchiaia diventa preponderante
il cambiamento della pelle nel colore, nella consistenza e per la presenza di
solchi, con la formazione di grinze e rughe di senescenza. Studiando col
disegno il teschio, e poi ricoprendolo di muscoli e infine di pelle, si rende conto
della ragione di un errore comune fra i pittori del tempo nel rappresentare i
volti degli anziani senza copiarli dal vero: invecchiando con le rughe il viso
di modelli in età giovanile, costoro non rendevano i cambiamenti dovuti alla
perdita di tono, col risultato che i loro volti di anziani sembravano dei “giovani
con dei segni in faccia”.
Ma, studiando le espressioni del volto,
Leonardo giunge a comprendere in modo empirico un’importante nozione
fisiologica. Capisce, infatti, che l’aspetto conferito al viso dai moti dell’anima,
dai sentimenti, dalle emozioni, da un intenso sentire o dalla reazione a
stimoli, fatti, eventi e circostanze non può essere ridotto a semplici schemi
di azioni muscolari che ammiccano gli occhi, corrugano la fronte, alzano o
abbassano le gote, allontanano o avvicinano la mandibola al mascellare
superiore e così via, ma è il prodotto di qualcosa che viene dall’interno, non
facile da simulare e, in alcuni dettagli, impossibile da riprodurre per gli
attori con la finzione.
Oggi sappiamo che i pattern cerebrali
che accompagnano alcuni affetti ed emozioni, attraverso un intero spettro di
molecole di segnalazione, possono far variare contemporaneamente numerosi
parametri funzionali dei tessuti del viso, ad esempio regolando per piccole
aree, come quelle che circondano gli occhi, il grado di attività di minuscoli
gruppi di fibrocellule muscolari sottocutanee, il grado di idratazione
microscopica zonale di cute e sottocute dipendente dalla rapida regolazione
dinamica della diapedesi capillare, ponendolo in relazione con uno degli schemi
di contrazione parziale dei cinquantadue fasci principali dei muscoli mimici
del viso, governati in modo dinamico dal nervo vidiano, ramo del facciale
(VII paio), che opera in sinergica armonia con il controllo nervoso dei rami
del trigemino (V paio)[50].
L’approdo di Leonardo ha dato luogo
nell’accademia moderna allo studio dei “volti di espressione” come base
irrinunciabile per il “ritratto psicologico”.
Oggi nella cultura di massa è
diffusa la conoscenza che il rilascio di endorfine che accompagna la gioia e l’innamoramento
ricambiato conferisce al sorriso caratteristiche e qualità speciali,
convenzionalmente riportate al concetto di luminosità; allo stesso modo, è noto
che la liberazione di cortisolo e degli altri ormoni dello stress, negli
stati d’ansia, dispiacere e paura, imbruttisce e incupisce il volto. Ma ancora
non è diffuso il sapere di ciò che Leonardo aveva ben compreso, ossia che lo
stato di tensione e tono dei muscoli e della pelle del viso costituisce una
sinergia dinamica continuamente attiva in risposta agli stati della mente.
Una sinergia che sembra essere ignorata
da quanti operano modificazioni plastiche dell’aspetto del viso mediante
interventi di chirurgia estetica che conferiscono lo sgradevole “effetto di
finto” per statiche facce da pupazzo o da bambola che, quando associato ad un
eccessivo riempimento dei margini delle labbra, raggiunge un grottesco
caricaturale da Carnevale di Viareggio[51].
I grotteschi di Leonardo
rappresentano un mezzo straordinario per capire le forme: si semplificano i
tratti generali e se ne accentuano alcuni; quelli che, quando accentuati
rendono la fisionomia della persona, sono i tratti caratteristici. Nasce così
la caricatura, dalla quale originerà qualche secolo dopo uno strumento
artistico di satira politica, e nasce un linguaggio di linee con le sue
soluzioni convenzionali, che in epoca contemporanea darà luogo allo stile del
fumetto e del disegno animato. Nell’Ottocento Ingres, che lo aveva appreso dal
suo maestro David, dichiarava: cherche la caricature.
Leonardo ha lasciato in eredità a
tutti i disegnatori dal vero lo strumento di un atteggiamento attivo e
inferenziale della mente per guidare la mano: cercare la caricatura nel disegno
per trovare la realtà; ma anche un dono per tutti: spingere le ipotesi fino all’iperbole
e al paradosso e poi correggerle secondo le evidenze, così che il vero della natura
e del mondo non ci trovi impreparati.
[continua]
L’autore della
nota ringrazia la dottoressa Isabella Floriani per la
correzione della bozza e invita alla
lettura degli scritti di
argomento connesso che appaiono nella sezione “NOTE E NOTIZIE” del sito (utilizzare
il motore interno nella pagina “CERCA”).
Giuseppe Perrella
BM&L-12 giugno 2021
[1] Oggi potremmo dire, con un
linguaggio scientifico, quell’insieme di periferia dell’organismo e
controllo cerebrale. Per carne si intende spesso il soggetto nella
sua componente istintuale primaria.
[2] Secondo questo senso si può
comprendere la formula cristiana del corpo quale “tempio dello spirito”. Nel
mondo secolarizzato di oggi, il corpo non è più “tempio dello spirito”, è una struttura biologica di fondamentale
importanza per l’individuo, ma manipolabile per necessità di salute col trapianto
di organi o per esigenze di vita con l’innesto di protesi elettroniche, oppure per
desideri del soggetto, come nel caso del cambiamento del fenotipo sessuale.
[3] Luca 9, 60.
[4] Vedremo più avanti la differenza
tra chi mette la pittura al servizio della conoscenza e della comunicazione,
ossia di valori di sostanza e chi la impiega per esaltare la forma,
in particolare l’avvenenza del corpo femminile.
[5] Matteo 28, 19.
[6] Già confutata nel Concilio di
Nicea, viene condannata la dottrina di Ario come eretica. L’Arianesimo
affermava che Cristo è stato creato dal Padre e ha avuto inizio nel tempo, in
aperto contrasto con la teologia del Logos del Vangelo di Giovanni. Furono
ariani gli imperatori romani Costanzo II e Valente. Caduto l’Impero, l’arianesimo
fu la religione di Goti, Vandali e Longobardi.
[7] Le maschere del teatro
greco-romano servivano ad amplificare la voce per il loro materiale e la camera
vuota che creavano intorno alla bocca dell’attore ed erano dette persona
(da per sonam); anche se molti etimologisti riportano un’origine diversa
del vocabolo, è dal gergo degli autori di teatro che si diffonde il significato
generico di persona come individuo o personaggio.
[8] Giovanni 2, 19.
[9] Per i padri della Chiesa homo
viene da humus (terra) e rende il senso del termine ebraico per Adamo
che vuol dire “il fatto di terra”.
[10] Per scelte dei traduttori, lo
stesso termine greco si è tradotto a volte anima e altre volte animo.
[11] L’immobilità forzata a letto rendeva
gli ammalati potenziali modelli, e i medici concedevano ai bravi pittori di
ritrarre i loro pazienti perché, in un’epoca in cui non esisteva la fotografia,
la minuziosa riproduzione di dettagli da parte dell’artista poteva fornire un
supporto alla riflessione diagnostica, ad esempio mediante confronti nel tempo.
Il disegno che riproduce un ammalato di Annibale Carracci è probabilmente il
più noto del Seicento, mentre nell’Ottocento abbiamo la straordinaria serie di
ritratti a olio di malati di mente di Gericault, intitolati con la diagnosi del
paziente.
[12] Carlo Pedretti, L’anatomia,
in Leonardo – Arte e Scienza, p. 112, Giunti, Firenze 2000.
[13] La dissezione anatomica sarà uno
straordinario strumento di scoperta del nostro corpo: basti pensare a tutte le
ghiandole scoperte nel secolo successivo e a tutto quanto si è conosciuto con
questo metodo fino ai nostri giorni, quando con sorpresa della comunità
scientifica si è scoperto il tredicesimo paio di nervi cranici, detto nervo
terminale.
[14] Leonardo da Vinci, Trattato
della Pittura, p. 4 – Condotto sul Codice Vaticano Urbinate 1270 dall’Unione
Cooperativa Editrice in Roma nel 1890 e riprodotto in copia anastatica dalla
Finedim presso la Stocchiero Grafica di Vicenza per conto del Club
del Libro Fratelli Melita, La Spezia 1984.
[15] Leonardo da Vinci, op. cit.,
idem.
[16] Il rapporto è pubblicato il 19
giugno 1508 e segue quello sui Francesi, che aveva appassionato molto i
fiorentini. Sono scritti in cui prevalgono osservazioni di psicologia sociale e
di antropologia, con le quali si faceva la politica estera.
[17] Alcune sue figure sono diventate
modelli e prototipi per tutti gli artisti del mondo in ogni tempo: si pensi
alla donna nuda dannata, nella Cappella di san Brizio, aggrappata sul dorso di
un diavolo che la porta in volo all’Inferno, ripresa da tutti i principali
illustratori della Divina Commedia, dai pittori rinascimentali a Gustavo Dorè.
[18] Completata la Sistina nel 1512, l’anno
dopo Michelangelo prova a farsi rendere il denaro ma, non riuscendo in alcun
modo, è costretto a denunciare la mancata restituzione al Capitano di Cortona,
città natale di Signorelli. Non rispondendo questi al sollecito del Capitano,
si finì in controversia legale. Mancando gli atti di esito della controversia,
si suppone che Michelangelo abbia rimesso il debito a un maestro che continuò a
lodare per il resto della vita.
[19] I Tondi di Signorelli, che
vi include dei nudi, sono anche un modello per il Tondo Doni di
Michelangelo. Paolucci ricorda di Signorelli anche la ritrattistica, con la
serie della famiglia Vitelli: famoso il ritratto di Vitellozzo Vitelli.
[20] La guerra terminerà nel 1517 con
la vittoria dei Veneziani che entrano in Verona e sconfiggono la Lega di Cambrai.
[21] Descritta da Machiavelli per Firenze,
oggi diremmo in chiave sociologica.
[22] Il Fondaco o Fontego (in
dialetto veneziano) dei Tedeschi era una casa-magazzino dei mercanti nordeuropei
appartenenti della comunità tedesca di Venezia che faceva capo alla chiesa di
S. Bartolomeo, nota per il dipinto di Albrecht Dürer La festa del rosario
(1506). Acquistato da Benetton nel 2008, la Duty Free Shop lo ha
trasformato in un centro commerciale di lusso, una Mall come quelle di Dubai.
Dal 2016 si chiama “T Fondaco” (“T” sta per tourist).
[23] La pittura a olio, dalla sua
invenzione attribuita ai fratelli Van Eyck da Bruges, si basava su numerose regole
precise e ben definite, cui si aggiungevano poche soluzioni tecniche
individuali dei maestri, custodite gelosamente come “segreti”. Lo stesso poteva
dirsi delle tempere su tavola, che erano in realtà diventate tutte “mezzi-oli” (v.
Tondo Doni di Michelangelo). Al contrario, l’affresco (tempera su muro
ad esecuzione rapida) aveva poche regole procedurali e tutto il resto era affidato
all’abilità, all’esperienza pratica e all’inventiva del singolo.
[24] Giorgio Vasari, Le vite dei
più eccellenti pittori, scultori e architettori, p. 483, Rusconi 1966-2002.
[25] Cfr. Alessandra Fregolent, Giorgione,
Electa, Milano 2001.
[26] L’Anonimo Gaddiano lo cita già nel
1540; nel 1623 il quadro era esposto a Fontainebleau dove fu ammirato e
descritto da Cassiano dal Pozzo: “Una Leda in piedi, quasi tutta ignuda, col
cigno e due uova al piè della figura dalle guscia delle quali si vede esser usciti
quattro bambini…” (Silvana Levi Orban, Leonardo da Vinci, p. 57, Futura
1980).
[27] In passato ritenuta completamente
autografa del maestro (Silvana Levi Orban, op. cit., idem).
[28] John Pope-Hennessy, Il Cinquecento
e il Barocco, Tomo I, p. 27, Feltrinelli, Milano 1966.
[29] Risale a quest’epoca il motto “l’arte
non conosce pudore”.
[30] Si vuole anche cercare di superare il difetto della pittura medioevale che, quando non rinunciava al cromatismo, presentava spesso tinte fuori tono, come quelle dei disegni dei bambini.
[31] Cfr. Carlo Linzi, Tecnica
della Pittura e dei Colori secondo Raffaello, Tiziano, Giorgione e Tintoretto,
p. 42, Hoepli, Milano 1975.
[32] Plinio scrive: “La celebre
vernice d’Apelle di cui noi siamo all’oscuro, e dei suoi compagni di allora, non
l’ha potuta imitare alcuno. Egli ricopriva il suo quadro con una velatura nera,
e questa rendeva i colori più brillanti, e li proteggeva dalla polvere, ed era
visibile solo quando i quadri si vedevano da vicino. Aveva altresì la proprietà
di ammorzare la troppa vivacità dei colori, acciocché non offendesse gli occhi
e intonava il quadro” (cit. in Carlo Linzi, op. cit., p. 32).
[33] In non pochi classici greci si
legge di uccelli che andavano a beccare l’uva da lui dipinta e di trompe-l’oeil
che realmente ingannavano le persone.
[34] Era detto “fondo nero regolatore”.
In pittura, l’asfalto è un bruno, non è un nero; nei sistemi quattrocentista e
cinquecentista a olio il nero è escluso dalla maggior parte dei pittori e, se impiegato,
è riservato alle mestiche per le tinte chiare, perché opaco. I bruni, invece,
sono trasparenti: una qualità fondamentale per dipingere gli scuri. Il nero nelle
ombre si otteneva dalla mescolanza di più colori scuri trasparenti.
[35] Per questo motivo lo si definiva
“fondo nero regolatore”.
[36] Carlo Linzi, Tecnica della
Pittura e dei Colori secondo Raffaello, Tiziano, Giorgione e Tintoretto, p.
41, Hoepli, Milano 1975.
[37] Nella tecnica fotografica, anche
in epoca digitale, si deve scegliere tra il “guardare attraverso la velatura”,
col risultato di rendere le tinte com’erano prima di essere ricoperte dalla trasparenza
cromatica, e “rimanere sulla velatura”, che vuol dire conferire una dominante
prossima al colore di superficie, ma che abbassa di tono il dipinto e riduce o cancella
la varietà di tinte e toni sottostanti. Con compromessi fra le due scelte si
tenta di avvicinarsi all’effetto dal vivo.
[38] Si dovrà aspettare il XIX secolo
per avere la figura della modella di nudo come ruolo lavorativo presso le
accademie di belle arti.
[39] Cfr. Teresa Poggi Salani, La
lettera di Antonio Mini, garzone di Michelangelo (1531), in L’Italiano
nelle Regioni – TESTI E DOCUMENTI (a cura di Francesco Bruni), pp. 439-442,
UTET, Torino 1995.
[40] Nel 1503, secondo quanto desunto
dai documenti trovati da Giuseppe Pallanti, che confermano il racconto del Vasari.
[41] Il Codice Arundel, custodito
presso il British Museum di Londra e prevalentemente dedicato alla matematica,
è costituito da 283 fogli, di cui i primi 30 sono del 1508.
[42] Nel 2017 si è tenuta a Roma una
mostra dal titolo: Labirinti del cuore. Giorgione e le stagioni del
sentimento tra Venezia e Roma. Lo stile di vita di Giorgione, che traspare
dalle sue opere, è stato con successo presentato dagli organizzatori in chiave
sentimentale, perché esprime una sensibilità prossima a quella oggi più
diffusa.
[43] Considerata l’età dei
protagonisti non è azzardato e improprio il paragone con la vita notturna degli
odierni campioni dello sport o protagonisti del mondo dello spettacolo.
[44] Si ricorda che Tiziano fu, anche
grazie a Carlo V, il ritrattista dei sovrani, e i compensi che andò accumulando
ne fecero il più ricco pittore della storia.
[45] Giorgio Vasari, Le vite dei
più eccellenti pittori, scultori e architettori, p. 486, Rusconi 1966-2002.
Il curatore delle note afferma lapidariamente che “l’aneddoto vasariano sulle
circostanze della morte è infondato”, ma non spiega la ragione di questo
giudizio. Ho deciso di riportarlo perché ricerche storiche recenti in numerosi
casi in cui il testo del Vasari era considerato per tradizione inattendibile hanno
dimostrato che in realtà era corretto, come nel caso dell’identità della
Gioconda, del ritrovamento dello studio di Leonardo all’Annunziata, ecc.
[46] Una vita più lunga gli avrebbe
consentito di riconciliarsi con Tiziano, e magari giungere a una piena maturità
spirituale e artistica.
[47] Monica Lanfredini, Leonardo e
“Morto da Feltre”: nuove scoperte, in Note e Notizie, febbraio 2005.
[48] Il viaggio risale al marzo del
1500. Sicuramente Giorgione conosceva la fama e le opere di Leonardo e, come dice
Vasari, lo imitava; ma l’ipotesi di un incontro tra i due si basa sul fatto che
Leonardo era andato a Venezia con lo scopo preciso di conoscere i pittori
veneziani.
[49] I rituali divinatori con resti
di cadaveri erano comuni in Alemagna e riemersi come ars Goetia, dopo la
messa al bando dei Romani nel periodo imperiale.
[50] In realtà, le conoscenze attuali
ci consentono di andare ben oltre questa sintetica e generica descrizione, fornendo
dei pattern di correlazione tra molecole e sistemi per la
caratterizzazione specifica di alcuni affetti ed emozioni, ma si tratta di
materia super-specialistica, poco adatta al tenore del discorso storico-filosofico
di questo saggio.
[51] Per quanto noi neuroscienziati
ci sforziamo di trasmettere la ratio della fisiologia mimica ai
chirurghi plastici, anche in nome della colleganza come medici, sembra che loro
vadano incontro ad un curioso effetto di perdita di udito monoauricolare dalla
parte in cui si tenta di parlare loro: ipoacusia di origine visiva, verosimilmente
causata dalla lettura delle cifre scritte sugli assegni emessi in loro favore
dai facoltosi pazienti.